Una fiorentina non più italiana? Ovvero le tribolazioni del bove chianino
“Sì, parliamo della bistecca, il monumento della cucina fiorentina”.
Così Aldo Santini inizia il capitolo dedicato alla fiorentina e alle vicende della razza chianina, nel suo La cucina fiorentina. Come fosse l’argomento verso cui l’attenzione di tutti converge, il climax in cui si decidono le sorti di un’intera gastronomia. Eppure non si tratta di una marcia trionfale, di un’autocelebrazione campanilistica, come ci aspetteremmo da un toscano doc. Si tratta piuttosto di un dramma in molti atti, che non riguarda solo il gusto e le tradizioni gastronomiche della città del fiore ma scelte politiche e interessi economici vasti e complessi.
“L’Artusi v’insegna l’abbiccì di questo piatto ineguagliabile per la sua semplicità e la sua possente gradazione nutritiva: ‘Da beefsteak parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo’ […].
E per concludere con l’abbiccì sulla bistecca: una storiella fa risalire al Cinquecento la nascita del suo nome. Festa in San Lorenzo, bue allo spiedo, distribuzione di carne al popolo, nella ressa ci sono dei mercanti inglesi che allo spettacolo del taglio delle fette di carne con l’osso si entusiasmano e le chiedono gridando:
‘Beef-steak, please! Beef-steak! Thank you!’ […].
Prima di allora le bistecche avevano un nome più logico: carbonate.
Oggi le bestie […] rispondono di rado alle esigenze della cucina fiorentina. L’autentica bistecca, infatti, vuole la carne chianina. E trovare la carne chianina è sempre meno facile”.
“Il bue chianino […] è la fabbrica delle bistecche vere, le cosiddette “fiorentine” che, perduto il filetto, i milanesi chiamano costate. Per loro la bistecca è la fettina alta due millimetri. Roba da piangere.
Senza carne chianina la bistecca non ha senso e non ha patria: non ha sapori. Il bove chianino ha la carne succosa. Masticandola senti la polpa compatta e vellutata che cede sotto i denti senza opporre resistenze biliose, come succede con la carne di certe bestie che arrivano da lontano: ma senza nemmeno abbandonarsi molle e insipida, puttanesca […].
La Chianina ha solo il grasso indispensabile alla mole del bove da cui nasce. È una carne moderna, il suo scarto è minimo. Il bove chianino è il più alto e il più maestoso del mondo. È quello che in proporzione al suo peso rende di più.
Mario Sanesi, che a Lastra a Signa ha una trattoria storica, un’ex posta di cavalli che talvolta ammannisce ancora le bistecche chianine, racconta: ‘È da un secolo che la mia famiglia cucina bistecche chianine in questo locale. Ma ora per trovare un vitello chianino bisogna girare come matti. E quando lo trovi devi pagarlo l’iradiddio’.
Che magnificenza quando a Lastra a Signa giungevano i contadini per la sfilata dei bovi chianini, tutti infiocchettati, bianchi come la porcellana, e robusti, di chiappe alte. Al più bello andava un premio. ‘Allora i vitelli, a peso morto, erano sui settecento chili’ dice il Sanesi. ‘Oggi quelli che ci mandano dal Nordeuropa non superano i quattrocento-cinquecento chili, e sembrano tisici. Quando devo mettere in tavola una fiorentina tagliata da un vitello straniero mi vergogno come un ladro’”.
Il bove chianino ha un aspetto imponente: la più grande razza naturale nel mondo, con un’altezza al garrese di un metro e ottanta nei tori, il manto bianco candido, testa e corna minute. Storicamente più che per la carne erano allevati per accompagnare il lavoro dell’uomo, proprio grazie alla possanza delle loro membra. A loro è tuttora riservato il privilegio di trainare il Carroccio, il carro che nella sfilata del Palio di Siena trasporta il drappo che andrà alla contrada vincitrice. Elvio Borgioli (Razza bovina chianina, Edagricole 1975) sottolinea le caratteristiche che lo rendono adatto al pascolo negli ambienti ostili: “gli arti più lunghi che nelle altre razze da carne, ma robusti e con ottimi appiombi piede un poco piccolo, ma con unghioni duri e resistenti. La pelle è sottile e pigmentata. Il mantello bianco, che è generalmente un carattere recessivo nell’incrocio di prima generazione con razze a mantello colorato, conferisce a questi bovini, con la pigmentazione cutanea, una notevole tolleranza alle temperature elevate ed alla forte insolazione”.
I vitelli hanno un accrescimento rapido e precoce, e, come abbiamo detto, il rapporto tra cibo e accrescimento è molto elevato.
Com’è possibile che una razza che ha una tale resa associata alla facilità di allevamento in Italia abbia conosciuto un declino che sa di suicidio zootecnico?
“Rispondendo a un’inchiesta del ‘Giorno’, nel 1981, il veterinario di Lastra a Signa dichiarava:
La Chianina è la più bella razza mai esistita, la migliore come rendimento e bellezza fisica. Ma è in estinzione. Ogni altra vacca messa accanto alla chianina fa la figura della derelitta. L’hanno ammazzata con la politica. Hanno preferito l’operaio al contadino, tutto qui. Hanno scoraggiato in ogni modo il mestiere del contadino, non aiutandolo in nulla. Lo hanno costretto ad andare nelle officine, se voleva mangiare tutti i giorni, mattina e sera. Quando arrivai qui erano appena passati i tedeschi. Le stalle erano vuote. Ma due anni dopo c’erano di nuovo settemila capi. Oggi, se faccio un conto generoso, in tutta la zona non ci sono più di centocinquanta-duecento capi, e di questi pochissimi di razza chianina. Il motivo? Se si compra un capo straniero arrivano i contributi, pochi ma arrivano. Se nella stalla nasce un vitello chianino, il governo passa qualche volta trentacinquemila lire, dopo molti controlli, ma non subito. Per averli, quei soldi, bisogna aspettare tre anni. Allora si preferisce comprare il vitello vivo.
E conclude:
I contadini toscani erano pervenuti a selezionare con una pazienza impressionante e un’arte incredibile, una razza che non ha uguali nel mondo. Esempio: castravano il vitello. Quelle bistecche che il Sanesi sogna di notte, le migliori in assoluto, vengono dai vitelli castrati. In pratica erano dei capponi e lo sappiamo tutti che la carne dei capponi è più buona di quella dei polli.
È l’inizio di un’analisi. Il titolo è pronto: Perché l’Italia della politica ha ucciso la razza Chianina. Il seguito l’ho documentato io stesso in un’inchiesta sull’‘Europeo’ all’inizio degli anni Ottanta. Nel Casentino trovai un caso che illustra da solo, con la violenza del paradosso, il dramma dell’agricoltura italiana. Fattoria di Bucena, quattrocento ettari di cui cento boschivi, terreno subappenninico, antico feudo dell’ospedale fiorentino di Santa Maria Novella, ci sono ancora gli stemmi”. Con l’ultimo proprietario prima della Seconda Guerra Mondiale, Giuseppe Sanarelli, “la fattoria visse un periodo di splendore: dieci case coloniche, duecento persone, scuola, parrocchia, cimitero. Una vera comunità”. Nel dopoguerra si è assistito a un rovinoso declino, fino a che la Bucena viene presa in usufrutto da una famiglia romana di origine siciliana, i Crisafulli. Il capofamiglia, l’avvocato Anselmo, “ha un progetto: allevare il bestiame in libertà. Sa che il bue chianino è più resistente del Charolais, dell’Aberdeen, del Limousin e dello Shorthorn, le razze dominanti sui mercati mondiali, che dà più carne di qualsiasi altro, che la sua carne è la più adatta ai consumi moderni, perché è la meno grassa, che è l’unico in grado di vivere sui terreni impervi e di nutrirsi senza mangimi di importazione, divorando ogni tipo di foraggio, il più vile, anche quello ispido delle zone incolte, e che ha una resa in carne per unità di foraggio superiore a tutti, che è il più coriaceo al freddo e al caldo, che la fecondità della femmina si aggira sull’85 per cento e supera il 90 negli allevamenti bradi, che la sua testa piccola rende meno pericoloso il parto”. I Crisafulli “rendono abitabile la casa quattrocentesca e acquistano venticinque capi […] dal sangue chianino purissimo. È il primo insediamento in quest’area deserta. Li guardano come marziani”. Dagli enti locali “non ricevono alcun aiuto. Ma tengono duro. Vanno alla fiera di Verona con undici capi, ammiratissimi, e li vendono a un allevatore brasiliano. Gliene rimangono quattordici. E con questi portano avanti l’esperimento” . Alcuni anni dopo la mandria è salita a novantadue capi, con autonomia di foraggio. Dice Crisafulli: “Ho dimostrato che l’Italia ha la razza bovina capace di tirarci fuori dalla crisi zootecnica che strangola la nostra economia. Sui terreni collinari e di mezza montagna disertati dall’agricoltura potremmo allevare tante di quelle mandrie da non avere più bisogno di importare carne. Anzi, avremmo la possibilità di esportarla. Non solo: con la Chianina ci libereremmo della dipendenza dal mercato USA dei mangimi”. Il progetto dei Crisafulli tuttavia si arena: il proprietario fa sfumare un grosso finanziamento europeo, le nuove amministrazioni mirano alla proprietà per trasformarla in cooperativa e ostacolano in tutti i modi le attività della famiglia.
“Alla lunga i Crisafulli si sono arresi. Stanchi di dover vendere sotto costo i loro capi di eccezionale qualità, li hanno messi all’asta. Erano centoquaranta, l’esperimento poteva considerarsi riuscito in pieno, ma la Toscana aveva dimostrato, una volta di più, di aver perduto molta della sua intelligenza e della sua civiltà”. Alla base della decadenza della zootecnia italiana “c’è un fatto politico e una catena di torbide speculazioni. Il Mercato Comune Europeo ha permesso l’affermazione dell’agricoltura francese e tedesca a danno soprattutto di quella italiana. Ecco il fatto politico. Ma si deve distinguere tra gli interessi nazionali e quelli dei baroni della carne, degli importatori, degli ingrassatori, degli industriali della macellazione e della refrigerazione, degli imprenditori zootecnici, degli industriali metalmeccanici e dei partiti. Eccoci alla speculazione. Il mercato internazionale della carne ha creato un giro di affari che in Italia ha messo a terra la zootecnia arricchendo numerose categorie. L’industria metalmeccanica ha potuto esportare macchine, motori e impianti nell’Est, almeno per vent’anni, solo perché in cambio il nostro Paese ha accettato di importare bestiame. E i grandi importatori di carne dall’Est hanno sostenuto, per amore o per forza, determinati partiti. Mentre altri partiti hanno favorito, per cause politiche, la dipendenza della nostra zootecnia dall’industria USA dei mangimi. C’è una sola razza bovina, in Europa e nelle Americhe, capace di sottrarsi alla dittatura dei mangimi e di trasformare qualsiasi tipo di erba in carne: la Chianina e i suoi incroci. È per tale ragione che i più potenti allevatori dell’America Latina, fin dagli anni Sessanta, hanno puntato sui riproduttori chianini per creare allevamenti in grado di non subire le sopraffazioni USA. Sissignori, il bove chianino, negletto nella sua Toscana, ha conquistato l’America, è diventato il re degli allevamenti prima del Sudamerica e poi del Nordamerica”.
“I nordamericani hanno cominciato ad allevare la razza Chianina per ragioni diverse da quelle dei sudamericani”. Questi ultimi, infatti, li hanno adottati soprattutto perché ai vitelli chianini non servono costosi foraggi, ma riescono a trasformare in carne “il verde delle praterie”, mentre i nordamericani “perché danno delle bistecche superiori a quelle di ogni altra razza. E siccome gli americani a stelle e strisce amano le bistecche più dei fiorentini, hanno deciso di dare la nazionalità statunitense ai più agguerriti riproduttori chianini”.
Gli allevatori per poter accedere a uno di essi si associano in pool. Anche il presidente Johnson era “socio di uno di questi pool. E una volta caricò sull’aereo della Casa Bianca i giornalisti accreditati alle sue conferenze stampa per trasportarli nel Texas, riceverli nel suo ranch e stupirli mostrando loro il gigantesco toro chianino di diciotto quintali in missione fra le sue fattrici. Johnson programmò il viaggio in modo di arrivare nel ranch all’ora della pipì. La pipì del toro. Gli esperti assicurano che la virilità, e la forza riproduttrice di un toro, si misura dalla lunghezza della sua operazione pipì […]. Lo spettacolo andò in scena con puntualità. Johnson impose il silenzio e cronometrò la prorompente cascata. Poi ai rappresentanti della stampa, rimasti letteralmente sbalorditi davanti al colosso impegnato nella teatrale bisogna, rivolse la seguente reprimenda: ‘Siete delle maledette teste d’uovo e non capite un accidente di queste cose. Ma sappiate che gl’italiani mangiatori di spaghetti hanno la migliore carne del mondo e da questo toro italiano avremo delle bistecche favolose. Spero che quelle, almeno, saprete apprezzarle’.
Johnson si sbagliava. Gli italiani non hanno la migliore carne del mondo: l’avevano”.
Mentre nel resto del mondo i ristoranti di lusso servono carne chianina, noi italiani, “malgrado i proclami dei benemeriti allevatori che tra mille difficoltà continuano a produrre i vitelli di questa razza monumentale, stiamo perdendo la memoria della virile morbidezza della sua carne”.
Un allevatore “di Borghetto Lodigiano confessa di non riuscire a vendere i suoi vitelli chianini: ‘I macellai li rifiutano, a Milano, perché hanno l’ossatura troppo pesante, e questo riduce i loro guadagni, perché le loro bistecche sono troppo grandi e la clientela inesperta non le vuole. Che poi la carne chianina sia fenomenale e del tutto sana non gliene importa niente, ai macellai. Loro preferiscono vendere la carne dei vitelli ingrassati che di norma è imbottita di estrogeni e di antibiotici, di sali di piombo, di tossine. I mangimi non fanno mica bene. E spesso arrivano guasti, dall’America. Solo i vitelli chianini sanno fare a meno dei mangimi. Ai macellai non interessa vendere della buona carne. Interessa esclusivamente vendere della carne che gli permetta di guadagnare molto’.
‘Ma sui vitelli gonfiati non c’è stato uno scandalo fragoroso?’ chiedo. ‘Con tuoni e fulmini sugli allevatori, sui veterinari e sui macellai disonesti?’
‘Sì, c’è stato, ma in Italia gli scandali si dimenticano presto’”.
Ma a chi non piace stare a piangere sul latte versato, tanto meno sul latte di una bella chianina, proponiamo di andarsela a cercare, la carne del gigante bianco, nelle sue terre d’origine, la ridente Val di Chiana. Andiamola a cercare nelle macellerie locali, nei ristoranti, nelle sagre. Sì, nelle sagre: questo, si sono inventati, gli allevatori che tengono duro, e gli abitanti della zona, che non vogliono rinunciare alla punta di diamante della produzione e della gastronomia del loro territorio. Sagre, per dare popolarità a un cibo nobile, ma semplice e genuino. Un cibo che non richiede cotture elaborate da alta cucina, ma che è tanto migliore quanto meno viene manipolato. Un cibo che parla di quelle terre e del lavoro umile della loro gente. Così, dal nord toscano al sud umbro della valle, in estate si susseguono festosi banchetti che celebrano questo straordinario dono della natura.
“E ora mettiamola in tavola, la bistecca. Che sia alta non un dito o un dito e mezzo secondo quanto dice l’Artusi, ma due. E che esca dal piatto. Polpa al sangue, compatta, da uomini veri, con i denti aguzzi, come sono i fiorentini. Coltello arrotato bene, pepe e sale ma non troppo, limone niente per carità. E un cantuccio di pane. Carne da ganasce solide, il dente ci fa presa con gusto primitivo. E dopo che il dente ha azzannato e strappato, la ganascia ci affonda, e palpa, stringe beata, macina la carne distillandone, quasi, gli umori e i sapori nativi, ancestrali”.
Link utili:
http://www.amicidellachianina.it/