I doveri di una traduzione letteraria
Tradurre un libro… non è una cosa da poco… e non parlo della difficoltà, che con un libro dei primi del Novecento è notevole… un libro racchiude l’anima di chi lo ha scritto, emozioni, sentimenti, visioni del mondo, idee, ideali…
Jack London a noi italiani è noto come scrittore per ragazzi… Jack London, un uomo che ha lasciato gli studi per la corsa all’oro, frequentato le bettole più malfamate, che ha conosciuto il carcere, ha navigato come cacciatore di foche e sugli ultimi velieri tra i mari del Sud, che ha fatto il pugile, l’inviato di guerra, il pescatore di frodo di ostriche, che è morto per un’overdose di farmaci per gli insopportabili dolori provocati dalla sifilide…
Veramente siamo convinti che Jack London sia uno scrittore per ragazzi? Beh, se con questo intendiamo che è uno scrittore, un uomo, che ha tanto da insegnare, ok… non certo che sia un semplice dispensatore di buoni sentimenti. Questo piuttosto è ciò che leggiamo nelle sue traduzioni… traduzioni patinate, leziose, rabbonite, edulcorate, in cui gli spigoli sono invariabilmente smussati, le insistenze cancellate, le crudeltà sentimentalizzate.
Jack London aveva un linguaggio ruvido, con accenti slang, creava disinvoltamente neologismi e giochi di parole ermetici con cui confondere il lettore…
Jack London era un uomo vissuto, ma era un uomo buono: non era un onesto, un irreprensibile, ma era un uomo in cui era ben chiara la differenza tra onestà e bontà, tra regole e morale, tra rubare e uccidere.
Questo in Italia non poteva passare: in un’Italia che gridava allo scandalo per le avventure erotiche di D’Annunzio e trovava incredibilmente moderni i parolismi insipidi di Marinetti, questo non poteva passare. Il traduttore non poteva permettere che questo illustre signore venisse a insegnarci che uccidere una balena è un crimine ben peggiore di bersi sei litri di birra al giorno, che i neri non sono negri e che i cani hanno un’anima.
Le affermazioni di London sugli animali, che oggi potremmo definire tranquillamente animaliste, nelle traduzioni che tutti noi abbiamo letto sono farcite di attenuazioni, giustificazioni, mani avanti. Sembra quasi che si scusi per certi suoi sciocchi sentimentalismi nei confronti di certe creaturine.
Nel testo inglese, all’opposto, sono esclamative, caricate, evidenziate, ripetute, rimarcate, condite di superlativi e di “molto”, “tanto”, “veramente”, “incredibilmente”, “spaventosamente” e di insistenti pletore di aggettivi e avverbi che vogliono amplificare, e mai ridurre, concetti e giudizi.
Ecco dove tradurre diventa un atto di verità, di onestà, di morale. E io non posso non sentirne il peso. Capire perfettamente il senso di una frase, riportarlo nel modo più aderente possibile all’espressione originale, in una lotta continua tra fedeltà al testo e scorrevolezza, non è facile, con una lingua come quella di London, ma è doveroso, tremendamente importante. Non solo perché non venga tradito il vero messaggio dell’autore, ma perché questo messaggio è tremendamente importante.
In un’epoca che covava i germi dei futuri nazismi, in cui una razza reputava le altre razze inferiori – imprinting culturale a cui London stesso non sfugge, pur cercando di liberarsene -, London ci viene a dire che, nella sostanza, tutti gli esseri viventi hanno la stessa dignità. E non ce lo dice sdolcinatamente, ce lo dice brutalmente, attraverso la morte, la sofferenza, la perdita.
Mi spaventa, questo, mi fa dubitare di essere all’altezza del compito. Non lo sono, in effetti, ma spero almeno di riuscire, nel mio piccolo, a instillare il dubbio, la curiosità, il senso critico. Spero di riuscire a liberare un libro imbavagliato e impastoiato dal solito buonismo all’italiana, e di far aprire gli occhi, che è poi per me il compito più alto della letteratura.
Benedetta Aleotti