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FRICO CU LA CEVOLE – FRICO CON LA CIPOLLA

Questo piatto, di sapore molto forte, è popolare a Illegio, ove si dice conoscano il segreto della sua perfetta cottura. Si fa sfriggere la cipolla nel burro o nel lardo e si aggiunge poi il formaggio Montasio fresco, tagliato a fettine, procedendo per la cottura al solito modo, a fiamma molto bassa per evitare che si attacchi sul fondo, finché il frico sarà diventato rossiccio e croccante.

A Chialina si lascia indorare la cipolla nel burro e poi si aggiungono patate a pezzettini. Quando queste ultime sono cotte si riducono in poltiglia schiacciandole con una forchetta. Infine, si aggiunge formaggio affettato e sale; si fa cuocere a fuoco lento per circa mezz’ora girando e rigirando in modo di avere una perfetta cottura. Si mangia con la polenta.

FRICO

Il “frico” che, secondo una credenza “racchiude in sé tutti i profumi dei pascoli, delle malghe alpine”, è tradizionalmente formaggio locale stagionato di cinque o sei mesi, fritto nel grasso del formaggio stesso, senza l’apporto quindi di burro, olio di semi o grasso. Sotto il profilo storico va ricordato che il formaggio fritto, comunque cotto è stato di largo uso già in epoca medioevale; anzi, allora deve essere risultato così corrente da essere addirittura relegato fra gli alimenti non meritevoli di formale menzione. Peraltro, già a metà del secolo XVI si hanno le prime enfatiche codificazioni con il “casio in patellecte” di Maestro Martino e, solo pochi decenni più tardi con il “caseus frictus” (da cui si vorrebbe far derivare il nome di frico) da parte di Bartolomeo Platina da Cremona. Successivamente tanti altri scrittori, saggisti, poeti se ne sono occupati, anche se si andava man mano consolidando la convinzione che “sul frico non bisogna fare poesia; bisogna soltanto mangiarlo ad occhi chiusi!” Vanno ricordati, in proposito, per le loro citazioni, Toni Broili, Adalgiso Fior, Primus di Cleulis e Rupil della Val Pesarina, quello che ricordava come “il frico fosse capace di ridare il fiato ai morti!” (Rupil, “Tiara morta”, S.F.F., Udine, 1978).

Riguardo al suo radicamento territoriale v’è da dire che il frico – quello di mont, con le patate – è intimamente ancorato all’area carnica. Poco noto oltre al crinale di lingua tedesca verso la Bassa Carinzia, e pressoché sconosciuto oltre il confine italo sloveno, risulta, invece, cibo veramente tradizionale per una categoria di lavoratori carnici – quella dei “boscadôrs” – che lo preferivano, oltre che per la facilità di asporto, per quel forte senso di sazietà che era capace di dare, a lungo; questo era un vero pregio per gente che di risorse alimentari non poteva disporre a volontà. Questo senso di appagamento, a ben vedere, era legato a una non certo agevole

digestione, tanto che si diceva un tempo che “il frico è di dura digestione, richiede stomaci gagliardi, conviene a giovani e fatiganti, più che a vecchi e a oziosi” (“Raveo, capitale dei sapori di Carnia”, “Taste Vin”, Treviso, n.1 febbraio/marzo 2005).

Anche dal punto di vista dell’utilizzo dei prodotti genuini del luogo, il frico è da considerarsi a pieno titolo cibo tipico. Peraltro, da quando il formaggio Montasio DOP si produce non solo in Carnia, si tende a convenire con quanti sostengono, che a parità di processo di produzione e di stagionatura, il formaggio presenti delle differenze in termini di gusto e di sapore. È conseguentemente da condividere pienamente la convinzione che anche il frico presenti delle differenze proprio in relazione alla zona di provenienza dell’ingrediente principale.

Quanto all’inventiva, l’identità di questo cibo è strettamente collegata a sistemi assolutamente autoctoni di elaborazione e di cottura del formaggio, per cui si può ben dire che il frico, forse più di ogni altro elemento appartenga alla più radicata cucina della Carnia, non solo, ma ne rappresenti una delle più significative peculiarità.

da “La cucina delle Carnia” di Pietro Adami

Una ricetta e una regione al giorno – da 01/01/2019

Copertina La cucina della Carnia, di Pietro Adami

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