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Gazzetta di Parma – Il boccon del prete

Gazzetta di Parma – 13 giugno 2016 (p. 23)
Lorenzo Sartorio

La neviera come frigorifero, il brodo mescolato con il vino e altre suggestioni legate al mondo dei nostri nonni

Cibo e famiglia, tradizioni sacre

Se un giovane si prendesse la briga, tra un sms e l’altro, di leggere l’ultimo libro di Giovanni Ballarini, storico, studioso, scrittore, presidente onorario dell’Accademia Italiana della Cucina, «Il boccon del prete» («Tarka» editore), troverebbe tante curiosità da farlo sicuramente sognare. Iniziamo allora il nostro viaggio fantastico nel mondo di ieri facendoci accompagnare dalle gradevoli pagine del libro.

Il rito antico della magica «rozäda äd San Zvan», che la liturgia contadina esigeva fosse celebrato dall’imbrunire del 23 giugno all’alba del 24, portando in tavola prelibati tortelli d’erbetta, che nuotavano nel burro ed affogavano nel parmigiano, accolti dalla solenne e tambureggiante marcia dei tappi di mai contate «turädi» di lambrusco e malvasia, si svolgeva nell’aia ad un tiro di schioppo dall’agreste «giasära». I frigoriferi e le moderne celle da freddo, i nostri nonni, non sapevano nemmeno cosa fossero. Al loro posto esistevano le «neviere» e cioè profonde buche dove la neve ed il ghiaccio erano coperti da una spessa coltre di foglie e paglia. Invece nelle cascine, nelle ville padronali, ma anche in alcuni caseifici, si poteva disporre della ghiacciaia: «la giasära». La «ghiacciaia», che in inverno veniva stipata di neve, sorgeva a poca distanza dalla villa, dalla casa, oppure dal caseificio ed era completamente coperta da una fitta boscaglia di pioppi, faggi o acacie affinché la calura estiva non potesse fare danni alle riserve alimentari che custodiva al suo interno. Era una sorta di «bunker» scavato sotto terra dal quale si accedeva da una porticina in legno. Un’alleata fedele della «rezdóra», specie nel periodo estivo, era la «moscaróla» che, appesa nel luogo più fresco della cucina o della casa, nell’ombra oscura, permetteva di mantenere frutta, verdura ed avanzi della tavola al riparo delle mosche, quando il frigorifero non era ancora stato inventato e la ghiacciaia era un lusso per pochi.

Il pollo era un cibo da signori: «Quando un povero mangia un pollo, o è malato il povero, o è malato il pollo». Questa massima la dice lunga sul fatto che il pollo ricorresse solo sulle tavole dei ricchi mentre i poveri lo potevano mangiare, solo se stavano molto male, insieme a un po’ di pane bianco. Altrimenti pranzo e cena di tutti i giorni erano prevalentemente a base di patate, polenta, «pane nero» e zuppe.

Un’altra bella chicca che appare nel libro di Ballarini è l’antichissima tradizione della scodella o della fondina «crepate» o «venate». Quelle che le «rezdóre» si passavano da madre in figlia. Collocate, ricolme di vino rigorosamente rosso e robusto sulla pentola in terracotta, servivano a dare sapore, profumo ed aroma allo stracotto per gli anolini. Altro antico rito che ha qualcosa di sacrale ed interessava il «rezdór» era quello del «bévr’in vén». All’inizio del pasto quando non si era ancora seduti ma era già presente in tavola la zuppiera con la minestra o il minestrone, gli uomini si impadronivano di una tazza, la stessa che serviva per bere il vino, dove versavano un po’ di brodo aggiungendo un po’ di vino. Questo rituale prevedeva una liturgia tutta sua. La mescolanza (vino e brodo) era lentamente assaporata e bevuta rigorosamente in piedi con il braccio sinistro dietro la schiena guardando fuori della finestra. Infatti, nascondere il braccio sinistro, significava eliminare il lato oscuro e negativo mentre, guardare fuori dalla finestra, era aprirsi ad un fausto domani.

«Colombaie» e «torri rondonaie», in passato, erano riserve di carni. Le colombaie erano costruzioni rurali a forma di piccole torri rialzate sulla copertura di un edificio maggiore, non avevano finestre e l’accesso esterno era garantito da piccole aperture attraverso le quali potevano passare solo i colombi. Inoltre il piccione, oltre aver rappresentato una buona riserva alimentare per la famiglia contadina di ieri, non procurava alcun danno ai campi in quanto, a differenza di altri uccelli domestici, non razzola e non scopre i semi messi a dimora. La cattura dei colombi nelle torri d’un tempo avveniva con chicchi di grano imbevuti di grappa. I colombi ubriachi non erano in grado di volare, quindi, venivano catturati. La «bomba di riso», piatto tipico, che Parma si contende con Piacenza, è fatta appunto con un ripieno di piccione. Le «torri rondonaie» erano un’altra cosa anche se abbastanza simile alle colombaie. Erano vere e proprie trappole dove, ad un’apparente ospitalità nei confronti dei volatili, i rondoni per l’appunto, seguiva una sorta di carneficina degli stessi per mano dell’uomo che, per fame e miseria, si nutriva anche di questi poveri e innocui uccelli. Le torri rondonaie erano studiate in modo perfetto per fare incetta di nidiacei, specie nel mese di luglio, prima dell’involo quando i piccoli avevano già raggiunto le dimensioni degli adulti.
Non poteva mancare un accenno alle risaie, ai loro abitanti acquatici (carpe, tinche e rane) e alle mondine: le eroine delle risaie. Le «mondariso» partivano per la monda verso la fine di maggio e tornavano a metà luglio, per poi ritornare in risaia a settembre per la mietitura. Si adattavano per necessità a fare le lavoratrici stagionali per andare al trapianto del riso in Piemonte o Lombardia. La durata della loro permanenza dipendeva dalle dimensioni del podere, mentre la stagione era di 40-50 giorni. L’età delle «mondariso» non aveva parametri fissi: ad esempio c’erano «risarole» che iniziavano a 13-14 anni le quali restarono in risaia una vita. Le risaie erano grandi distese, i cosiddetti «pianoni», sui quali le ragazze dovevano lavorare sempre curve in mezzo all’acqua, sotto il sole cocente, tra bisce, rane e nuvole di zanzare.

Un altro cibo presente sulle tavole di ieri erano le care vecchie polpette, specialmente quelle fatte di carne avanzata di lesso o arrosto. Una storia intrigante, quella delle polpette, che Ballarini fa risalire all’età tardo-medievale per merito del maestro di cucina Martino da Como. La parmigianità, invece, ricorda le mitiche polpette che dispensava il Sordo nella sua osteria di borgo Sorgo e le attuali, rigorosamente «äd càval pisst», cucinate dal bravissimo Corradino Furlotti del circolo Aquila Longhi.

Possono andare a braccetto fede e cucina? Molto probabilmente sì.
Le nostre nonne, a questo proposito, avevano escogitato un sistema ora affidato alle computerizzate sveglie incorporate nei vari forni al fine di programmare i tempi di cottura. Nel tempo di due «Gloria Patri» (10-12 secondi) si cuoce il fegato. L’«Ave Maria» (15 secondi) scandisce il tempo per cuocere i «brigidini». Un «Credo» (un minuto e mezzo) è il tempo di cottura di un uovo al tegamino. Per le uova sode occorrevano due stazioni o poste del rosario. Il pane doveva fermentare per il tempo necessario a recitare un intero rosario (20-25 minuti). Infine una messa cantata era necessaria per cuocere un cappone.

 

Il boccon del prete - Gazzetta di Parma

 

 

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