La parola agli animali
C’è chi canta, chi danza, chi grida, chi batte sugli alberi… Non siamo soltanto noi umani a “parlare”.
Marco Ferrari, FOCUS – maggio 2016
La scoperta più recente viene dalle profondità marine. L’oceanografo Robert Dziak, della Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), pensava che almeno a qualche chilometro sotto il livello del mare si potesse stare lontani dai suoni della natura, dal canto degli uccelli all’abbaiare dei cani, allo squillo dei galli. Ma anche lì, nelle oscurità assolute, insieme con il rumore delle navi, si sentono ancora balene che fischiettano, pesci che ronzano e altri animali che urlano.
CANTO MODULABILE. I suoni dei viventi, insomma, sono ovunque sulla Terra, e anche parecchio sotto. Ci sono gridi che contengono messaggi complessi, canti ricchi di informazioni, urli intricati. Tutti gli animali, bene o male, mandano messaggi acustici. «Il suono è usato in situazioni in cui l’olfatto o la vista non arrivano», dice Danilo Russo, ricercatore dell’Università di Napoli Federico II e autore di Suoni bestiali (Tarka edizioni). «II vantaggio è che si possono modulare intensità e frequenza, e il segnale può essere prodotto quando serve».
Al contrario dei segnali visivi, per esempio, che funzionano solo quando c’è luce. Persino quelli che dovrebbero essere “muti”, cioè i pesci, cantano. I più famosi sono i pesci rospo (Porichthys notatus): vivono nelle acque costiere della California e nella stagione della riproduzione, per attirare le femmine, i maschi si esibiscono in un coro di muggiti che assomigliano alle sirene delle navi.
Il termine coro è corretto; si è scoperto che i primi maschi cominciano a cantare al calare della sera un po’ come vogliono, ma quando se ne uniscono altri, tutti tendono verso una frequenza comune. «Poi il suono va su e giù di altezza durante tutta la giornata; come se ognuno ascoltasse gli altri e rispondesse a tono», spiega Roger Bland, un fisico che collabora con il Romberg Tiburon Center for Environmental Studies della San Francisco State University (Usa).
Cantano in coro per attirare e impressionare le femmine altri abitanti del mare, le megattere (Megaptera novaeangliae), grandi balene oceaniche. I maschi, nella stagione della riproduzione, emettono suoni complessi e articolati, vere e proprie canzoni che durano anche mezz’ora. Ognuna può essere divisa in vari “temi” costituiti da frasi ripetute. Una struttura complicata e gerarchica, con ripetizioni di unità che vanno da sette a oltre quattrocento. Ma non è finita: ci sono anche gli stili locali. I maschi di una popolazione cantano la stessa canzone, differente da quella di altre popolazioni, che cambia di anno in anno. A molti, queste modifiche hanno fatto pensare a una vera e propria trasmissione culturale: come gli stili della musica pop cambiano di anno in anno, anche le balene hanno il loro festival di Sanremo, o meglio di Woodstock. Anche se, nel caso di altri cetacei, sarebbe meglio non stare troppo vicino al palco; la balenottera azzurra (Balaenoptera musculus), per esempio, ha un canto che i propri simili sentono da una parte all’altra dell’oceano e raggiunge i 188 decibel, più di una granata.
ESIBIZIONI. Canzoni con intenti sessuali e territoriali sono anche quelle di molti uccelli: i maschi cercano di impressionare le femmine con i loro suoni. Ma il canto dell’usignolo e del pettirosso ha una doppia funzione; oltre che attirare le femmine, respinge i maschi che cercano di penetrare nel territorio. A differenza di quello che si pensava una volta, anche i canti degli uccelli non sono immutabili, e a volte sono differenti da regione a regione; i fringuelli, per esempio, hanno i dialetti… e un uccellino italiano non capirebbe uno tedesco. Poi ci sono gli esagerati, cioè specie che di anno in anno cambiano canto per farlo diventare sempre più complicato e quindi dimostrare all’altro sesso quanto siano brillanti e quanto il loro cervello riesca a “dominare” il suono.
E anche i veri virtuosi, come l’uccello lira (Menura navaehollandiae): il suo canto è elaborato e complesso anche perché introduce rumori e suoni della foresta in cui vive. Se sente uomini con le motoseghe, ambulanze, fotografi e cantanti lirici, non è impossibile ritrovare questi suoni perfettamente riprodotti all’interno del suo canto. Non ci credete? In alcuni filmati su YouTube si possono ascoltare uccelli lira che… scattano fotografìe e guidano ambulanze.
Vocalizzi territoriali sono anche quelli degli anfibi, come rane e raganelle. Sono così evoluti per farsi sentire dalle femmine che una piccola specie di Porto Rico, il coquì (Eleutherodactylus coqui) è uno degli animali più rumorosi del pianeta: il suo canto ha la potenza di un tagliaerba che lavora a pochi decimetri di distanza. È un anfibio anche il protagonista di un’altra storia, più pericolosa. I maschi delle rane tungara (Engystomops pustulosus) attirano le femmine con il loro gracidio; che però è ascoltato anche da una specie di pipistrello “mangiarane”, il Trachops cirrhosus. Il quale si precipita sul coro dei maschi per farne un sol boccone. «C’è però una serie di strategie evolutive tesa a minimizzare il rischio di essere ascoltati», afferma Russo. «Come la riduzione dell’intensità del segnale».
COMUNICAZIONE DI GRUPPO. Il canto sociale può però essere molto più complesso se si tratta di lupi. Non è solo un mezzo per farsi ascoltare da altri branchi nelle vicinanze, in modo da tenerli lontani ed evitare quindi i conflitti. Quando cantano assieme (no, la Luna non c’entra), una famiglia di lupi lo fa anche per sentirsi parte del gruppo, per “aumentare la coesione sociale”, come dicono gli etologi. Lo stesso accade per molti altri animali, per esempio il cervo. Che lancia gridi particolari (i bramiti) per segnalare agli altri maschi di essere lì, di essere forte e quindi di non avvicinarsi alle “sue” femmine. E un classico esempio di segnale che viene definito “onesto”: «Un cervo mingherlino che volesse fare la voce grossa si esporrebbe a uno scontro diretto con un concorrente, con il rischio di perdere», spiega Russo.
Anche gli elefanti africani di savana usano i suoni per comunicare, ma lo fanno con una tecnica del tutto particolare, scoperta solo da pochi anni. Utilizzano i cosiddetti infrasuoni (che sono sotto la soglia della nostra udibilità). Sono potentissimi e arrivano a 30 chilometri di distanza: in condizioni atmosferiche particolari, anche a 300. In questo modo maschi e femmine sincronizzano i periodi di estro, e i branchi si muovono sul territorio come mossi da fili invisibili.
Si potrebbero quasi definire segnali “sismici”; proprio come quelli di alcuni ragni salticidi (Habronattus dossenus), che comunicano non con onde sonore, ma producendosi sul terreno, o meglio sulle foglie, in una danza scatenata degna del miglior Fred Astaire. Per inviare verso le femmine affascinanti segnali che potremmo definire (letteralmente) “Good Vibrations“. Ben più robusto, invece, è il suono emesso dai picchi, che colpendo i tronchi degli alberi producono veri concerti di percussioni. Un canto da batterista che ha ancora lo scopo di attirare le femmine e respingere gli altri maschi.
LINGUE DA SCIMMIA. Ma i gridi servono anche per segnalare la presenza di un nemico. Per questo i cercopitechi di Campbell (Cercopithecus camphelli), piccole scimmie africane, usano gridi differenti per avvisare dell’arrivo di un leopardo o della caduta di un ramo. Con un particolare interessante: sono in grado di aggiungere, alla fine di un grido, un suffisso speciale, una specie di u, che ne modifica il significato.
Così krak è il leopardo, ma krak-u è un pericolo generico, hok è l’aquila coronata, ma hok-u è un pericolo meno identificato che viene dalla volta della foresta. Fino a vere e proprie frasi: bum-bum è una chiamata a raccolta, ma bum bum krak-u krak-u significa che un ramo sta per cadere. Non è finita: se l’ordine dei gridi è invertito dai ricercatori, per esempio u-krak invece di krak-u, gli ascoltatori sono perplessi e non capiscono cosa l’altro dica. Insomma, sembra che queste scimmie abbiano scoperto come utilizzare i suoni in combinazione fra loro, in una sorta di grossolana grammatica. Non tanto diversa, almeno in linea di principio, dalla sofisticata e complessa gestione dei suoni di una specie molto, molto particolare. Cioè l’uomo.
- Marco Ferrari
FOCUS, maggio 2016 (pp.44-49)