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Un fante lassù – Licenza invernale (gennaio 1916)

Ci accantonammo, per il turno di riposo, a Passariano d’Udine, nelle case coloniche accovacciate nella campagna, intorno alla villa dei conti Manin. Ero l’ultimo arrivato: logico che quasi tutti i servizi e l’istruzione della compagnia toccassero a me. Ma Codroipo era vicino; e c’era un bar dove si poteva persino bere un americano e giocare al bigliardo. E poi c’erano delle donne.

Venne Natale. Molti erano già in licenza; e quella sera, alla mensa, si cercò di fare del chiasso e di ubriacarci. Ma non ci riuscimmo. Squallida intorno la campagna, piena d’acquitrini; e le case addormentate, sotto un po’ di luna. Un Natale senza luci alle finestre. In ogni casa, un vuoto; in molte un vuoto che non si sarebbe riempito più.
Verso la mezzanotte ci lasciammo. Io dormivo in una stanzetta a terreno nel rustico della villa, con un caro collega, l’aspirante Cappetta, di Salerno, che, di solito, si addormentava nell’attimo stesso che soffiava sulla candela. Quella notte non gli riuscì di prendere sonno. Seduto sul letto, ad onta del freddo che lo faceva rabbrividire, mi raccontò per un pezzo della sua casa e della sua famiglia.
– Sai, – mi diceva – quando andrò in licenza, busserò alla porta di casa. È in una stradetta vicina a una piazza. Si affaccerà a una finestra la mia sorellina più piccola ed io le dirò serio serio: “ho dimenticato il fazzoletto; sono tornato a prenderlo”. E rideva di questa invenzione, lisciandosi, tutto commosso, i baffetti biondi.

La licenza mi toccò a fine d’anno. E il viaggio, in tradotta, mi parve eterno, e, insieme, troppo breve, tanto era intensa quella smaniosa ansia di arrivare, quell’inquieto immaginarmi la scena che sarebbe successa. Quando la mia città mi apparve, coi suoi campanili e le sue torri, sulla cresta del colle, dovetti staccarmi dal finestrino per non commettere qualche sciocchezza.

A casa arrivai che nessuno mi aspettava. E fu una festa che mi stordì. La mamma mi aveva allacciato con le braccia e non mi voleva lasciare, tanto che il papà, metà per scherzo e metà sul serio, intervenne per avere lui pure la sua parte.

Quindici giorni. Qualche volta mi pareva che non finissero mai; qualche altra che si dileguassero con una rapidità inesorabile. Tante cose da raccontare; e non saper mai da quale incominciare. Un po’ la paura di spaventare la mamma, un po’ il timore che la “mia” guerra non fosse poi così interessante e meravigliosa come quella che si leggeva sui giornali; il fatto è che non riuscivo a dire neanche la decima parte di quello che mi ero proposto di descrivere. Ero ostinato e minuto, invece, nel voler sapere: di tutto e di tutti. I miei amici, per esempio, i miei compagni di liceo, dove erano? in quale reggimento? in quale parte del fronte? Curioso! Erano quasi tutti rimasti in città, nei vari uffici. Protezioni, raccomandazioni. Chissà! Non avevo nessuna voglia di indagare, e neanche di esprimere lo sdegno che mi sentivo ribollire nel fondo a quella constatazione. Ne incontravo spesso, sul Sentierone: ed erano tutti in diagonale, coi gambali lucidissimi e la cravatta bianchissima intorno al collo. Nessun pidocchio, certamente.

Grandi esclamazioni di meraviglia, strette di mano gagliarde e “ti ricordi?”, “ti ricordi?”. E poi, di sfuggita:

– Sei in licenza?
– Sì. E tu?
– Macché licenza; ufficio da mattina a sera, e qualche volta anche dopo pranzo… Tu dove sei?
– Tal reggimento, tale compagnia…
– E fronte? – Carso: Monfalcone.
– Ah!… Beato te. In questa maledetta Sussistenza dove mi hanno inchiodato, si crepa di noia.
– Quanto al crepare, sai, neanche da noi si scherza.
– Sì; ma è un’altra cosa. No, no: credi a me. In fondo, siete dei fortunati. E se ne andava sospirando e scuotendo, come una vittima rassegnata, la testa.

E poi c’era chi voleva sapere, sapere, sapere; e non poteva persuadersi ch’io non avessi proprio nulla da raccontare, neanche un attacco da descrivere, neanche una bella morte da rievocare.

– Ma lei non ha ammazzato ancora nessun austriaco?

E pareva che in quella domanda ci fosse uno stupito rimprovero: come si sarebbe potuto vincere la guerra se tutti avessero fatto come me?

Una zia, la più cara delle zie, saputo che lassù si giocava molto alle carte, si turbò tutta e mi supplicò, “per quanto avevo di più caro” di non prendere quell’abitudine che avrebbe finito col rovinarmi.

– Quando ti invitano a giocare, pensa alla tua mamma che prega, al tuo papà che lavora da tanti anni per te, e… va a fare una bella passeggiata.

Una cugina, che mi era stata anzi molto cara, quando seppe che in trincea non ci si poteva lavare e neanche far la barba, ebbe un brivido di sgomento e torse la bella bocca pregandomi di non ripeterle mai più quelle “brutte cose” se non volevo vederla svenire. Non osai confessarle l’affare dei pidocchi, ma poi me ne pentii. Glielo confessai invece alla mamma; mi prese la testa fra le mani e mi baciò a lungo a lungo sulla fronte.

Ecco: a casa mia, sì, qualche volta, dopo pranzo, mi lasciavo andare a qualche confidenza. Ma poche cose, dette alla svelta, senza importanza. Sentivo che ormai io vivevo in un mondo lontano, troppo lontano dalla loro mentalità e dalle loro consuetudini. Potevano mai interessarsi al fatto che, nell’assenza del capitano, la compagnia fosse comandata da un sottotenente meno anziano di me, ma effettivo, e per questo solo considerato più anziano? L’avrebbero creduta una delle solite ingiustizie; ed era invece un’ingiustizia assolutamente diversa dalle solite. Potevano persuadersi della necessità di promuovere a sergente il caporal maggiore Ferrarol? Potevano capire l’importanza dei turni di corvè? E allora, perché raccontare? Io vivevo un’altra vita, in un’altra famiglia: ch’era la mia vera famiglia. Dove i pericoli, quelli sì, non avevano nessuna importanza, e la morte era, in fine, un fatto d’ordinaria amministrazione, da registrarsi sul libro di contabilità della Compagnia. E la guerra… la guerra era la guerra, e nient’altro: ecco. Concepirla sotto una specie di morte atroce sempre imminente, era un errore. La guerra era piuttosto un modo di vivere, di pensare e di sentire, prima ancora che un modo di morire. O, forse, era questa continua possibilità di morire, presente senza tregua al nostro spirito, che dava a quella nostra vita un colore e una serenità nuovissima. Sì: la vita, nel suo senso assoluto, non è che un’attesa della morte; ma gli uomini l’hanno organizzata in modo che l’illusione della sua durata è una certezza indubitabile e, insieme, la pregiudiziale necessaria d’ogni pensiero e di ogni azione. Lassù l’illusione secolare era caduta: ecco tutto. Non era più necessaria perché l’avvenire non contava più nulla. Il presente soltanto era la grande, infinita realtà…

Chi poteva capire tutto questo? La mamma?… La mamma non vedeva che con la sua angoscia, per gli occhi del suo terrore; e basta. Non poteva credere che ci fossero tante e tante ore liete e gioconde, lassù, all’ombra della morte. La mamma contava i morti, e non credeva ai vivi. Nessuno, insomma, che potesse capire: nessuno che potesse vedere. E allora, dopo cinque o sei giorni, avrei voluto ritornarmene al mio reggimento. Non sapevo come passare i lunghi pomeriggi invernali, così vuoti, nella mia città, così vuoti da immalinconire anche la mia giovinezza.

Verso la fine della licenza il papà cadde ammalato; e questo accrebbe la tristezza della partenza.

Dovevo prendere il treno delle cinque del mattino per raggiungere la tradotta a Brescia; e fu la mamma a svegliarmi. Capii che non aveva chiuso occhio in tutta la notte. Il suo viso, il suo povero viso bianco, era consumato dal dolore.

– E il papà?
– Non ha dormito affatto, poveretto.

Mi vestii in silenzio. La mamma era in cucina a prepararmi il caffè. Nella stanza vicina alla mia, Maria dormiva, e ne sentivo il tranquillo respiro. Le sfiorai la fronte colle labbra, senza svegliarla; ma forse sentì il mio bacio perché ebbe, nel sonno, un piccolo gemito. Nell’altra stanza il papà mi aspettava. Seduto contro una fila di cuscini, col viso scuro, gli occhi affossati, un convulso di singhiozzi che gli faceva tremare la gola, mi strinse quasi con furia contro il suo petto, mi baciò, mormorando solamente:

– Poverino… poverino…

La mamma non ebbe una lacrima. Quasi spettrale, cogli occhi nerissimi che parevano stranamente ingranditi nel suo viso bianco, mi accompagnò fin sulle scale, si lasciò abbracciare e baciare tutta fredda e tremante, dicendo ogni tanto il mio nome, come se lo confidasse a sé stessa. Poi stette sul pianerottolo, con un braccio proteso in fuori a reggere la candela per rischiarare un poco la scala oscura. Quando fui giù, alzai la testa a guardarla: la fiamma oscillante della candela le riverberava nel viso tra palpiti d’ombra. Non aveva un gesto, non aveva una parola. I suoi occhi mi cercavano nell’ombra della scala. Per vedermi meglio, fece schermo con una mano alla candela; e allora un tenuissimo sorriso parve passare, disperato, sul suo volto.

– Mamma!
– Gino…

Il mio nome mi arrivò a stento, come un soffio. Fuggii, chiudendo con forza alle mie spalle il portone della casa, che rimbombò cupamente nel silenzio della deserta via.

da UN FANTE LASSÙ
Uomini e vicende sul fronte italiano della Grande Guerra
di Gino Cornali
pagine 176 – 16,00 euro
ISBN 978-88-98823-51-2

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